Guerra di liberazione e Costituzione Repubblicana

Guerra di liberazione e Costituzione Repubblicana

di Dino Greco

Non si capirebbe molto della Costituzione, cioè dell’atto fondativo identitario della Repubblica italiana, se non si collegasse la sua complessa gestazione a quell’evento straordinario che fu la guerra di Liberazione nazionale, cioè la rivoluzione democratica e antifascista.

E se ne capirebbe ancor meno se non si cogliesse in quel moto che fu di popolo il ruolo assolutamente centrale, sebbene non esclusivo, che vi ebbero la classe operaia e i comunisti.

La lotta di liberazione ebbe infatti il carattere di una guerra patriottica, contro l’occupazione nazista ma, contemporaneamente, fu l’insurrezione contro la dittatura fascista che aveva liquidato ogni forma di libertà democratica e che aveva trascinato l’Italia in guerra al fianco di Hitler.

La guerra di liberazione assume dunque un carattere immediatamente politico: essa è la sollevazione in armi contro il fascismo inteso, secondo la definizione che ne diede Georgi Dimitrov, come “la dittatura terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario”.

Ma c’è un terzo elemento, di cruciale importanza. Proprio per la sua impronta di classe, la lotta di Liberazione non si limita a spazzare via il fascismo per tornare alla situazione precedente, ma chiude i conti anche con il vecchio stato liberale.

Con la Costituzione si ha un vero e proprio salto di paradigma, di modello politico-istituzionale e di baricentro sociale: sono i lavoratori ad avere salvato il paese, mentre la borghesia aveva sostenuto il fascismo e il suo regime.

La Carta mette le cose in chiaro sin dal suo articolo1): “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Nessun’altra costituzione fa una cosa del genere, tanto meno nel suo cuore, nel suo tratto identitario, nella definizione che essa dà di se stessa.

Ovviamente, come vedremo, la definizione non è appesa nel vuoto: vedremo in seguito come essa si declina, tanto nei principi fondamentali, quanto nella seconda parte.

E’ della massima importanza percorrere il dibattito che impegnò la Costituente, comprendere lo scontro che lì si ebbe fra le diverse culture politiche in campo e per cogliere il livello del compromesso straordinariamente avanzato che fu infine raggiunto, con un asse che si saldò fra la cultura social-comunista di Togliatti, Lelio Basso e quella cattolico-democratica di Dossetti e La Pira.

Lo scontro che nella prima sottocommissione dell’Assemblea costituente si sviluppò intorno ai principi che dovevano informare i rapporti economico-sociali (che si sarebbero materializzati nei 13 articoli del Titolo III della Carta) fu di grande durezza.

Protagonista di quella memorabile battaglia fu il segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti.
Ricapitolarne i tratti salienti farà scoprire (o riscoprire) la formidabile attualità (e, nello stesso tempo, la siderale distanza) di quell’ingaggio politico e del respiro politico e morale di quel pensiero, rispetto alla supina subordinazione al capitale di tutte le forze che compongono l’attuale arco parlamentare.

Ebbene Togliatti, in contrasto aperto con l’altro relatore della sottocommissione, Roberto Lucifero, pone subito, in apertura, la questione cruciale.
Il tema è quello della libertà di iniziativa economica privata (la libertà d’impresa) rivendicata da Lucifero …“nomen omen”… come la condizione perché ad ognuno sia garantita un’esistenza libera e dignitosa.
Togliatti non ci sta e replica secco, letteralmente, che “tutto questo suona irrisione”. Perché in un sistema capitalistico ove regna la pura libertà economica, i rapporti sociali, cioè i rapporti di proprietà che nel suo seno si generano, tendono a concentrare la ricchezza nelle mani di ristretti gruppi privilegiati, mentre dall’altra parte aumentano povertà e diseguaglianza.

Togliatti prende cioè di petto l’intera cultura economica, l’intera impalcatura del dottrinarismo liberale per dire che se si resta alla superficie, se non si va alla radice della contraddizione fra il carattere sociale della produzione e quello privato dell’appropriazione, si riproduce fatalmente l’ordine di cose esistente:
“La proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza – dice Togliatti – si concentrano nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il Paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per sostenere movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della nazione”.
Merita qui rilevare come per Togliatti gli interessi della classe operaia, a differenza di quelli della borghesia capitalistica, coincidono con gli interessi generali (che non sono mai, dunque, in questa accezione, la media aritmetica, il luogo geometrico, degli interessi di tutte le classi).
Togliatti non usa artifizi o giri di parole. Dice, esplicitamente: “Bisogna colpire i gruppi privilegiati!”.
Questo è il nesso vitale, teorico e pratico, con quello che diverrà, a fine percorso, l’articolo 1 della Costituzione.
Per fare questo – prosegue Togliatti – occorre “un’ampia e radicale riforma della struttura della società”. Perché soltanto così è possibile difendere le istituzioni democratiche che le classi al potere hanno portato alla rovina.
Insomma, non basta declamare aulicamente gli immarcescibili princìpi: “Vano sarà avere scritto nella nostra Carta il diritto di tutti i cittadini al lavoro, al riposo e così via, se poi la vita economica continuerà ad essere retta secondo i princìpi del liberalismo”.

E’ chiaro ora perché prima ho parlato di “salto di paradigma” politico-sociale e di chiusura dei conti col vecchio stato liberale pre-fascista?

Perché nello stato liberale l’asse intorno al quale tutto ruota è il capitale, non il lavoro, l’impresa, non i lavoratori, la proprietà privata, non l’interesse sociale (il termine “bene comune” oggi in voga ne è in qualche misura sinonimo, ma non compare, in questa forma, nella Carta).

Facciamo un passo indietro, per meglio capire.

Il mondo borghese, il mondo della borghesia liberale classica, è un mondo profondamente individualista: esso concepisce la sfera politica come funzione garantista della proprietà privata, retta sul principio inossidabile della concorrenza.
Lo Stato ha dunque come propria peculiare funzione quella di proteggere la proprietà privata.

Lo stato borghese liberale classico è uno stato antiassociazionistico, considera cioè l’associazione una corporazione disgregatrice dell’unità nazionale.

La rivoluzione francese, la più tipica e completa rivoluzione della borghesia moderna, sanziona la soppressione di ogni forma di associazione politica: la legge Le Chapelier del 1791 mette al bando qualsiasi forma di associazionismo.

Perché?
Perché da solo il borghese si sente più forte e sicuro; da solo, al contrario, il proletario si sente inesorabilmente debole, in balia di ogni sopruso da parte del più forte.
L’associazione è per il proletario il solo modo di resistere, mentre il borghese se ne sente minacciato.
Ecco perché è tipica del proletariato l’istanza della libertà mediante associazione. Ed ecco perché la Costituzione esalta la funzione delle associazioni, dei partiti, dei sindacati.
Si pensi all’articolo 39 che promuove l’associazione sindacale, il diritto dei lavoratori di coalizzarsi, anche se l’applicazione cogente di questo precetto avverrà soltanto nel 1970, con lo Statuto dei diritti dei lavoratori, a seguito di una formidabile stagione di lotte operaie.

Ancora: nello stato liberale si votava, tradizionalmente, per censo, dunque solo il 5% era effettivamente titolare del diritto di voto.
La concezione del potere era cioè oligarchica e rigorosamente classista.
La borghesia liberale non accetta, ma subisce l’estensione del suffragio, che in Italia diventerà universale, con l’estensione del voto alle donne, soltanto dopo la sconfitta del fascismo.

I “padri costituenti” capiscono una cosa fondamentale. E cioè che fra lavoro e capitale c’è un’asimmetria fondamentale: Siamo tutti (formalmente) uguali di fronte alla legge, ma siamo profondamente diseguali nei rapporti sociali. E questa disuguaglianza sostanziale finisce per vanificare anche la prima affermazione di principio.

Ebbene, la Costituzione dà due risposte:
l’articolo 3), che nel secondo comma stabilisce che “è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

E tutto il Titolo III, quello che disciplina i “Rapporti economico-sociali”. Si tratta dei 13 articoli che vanno dal 35 al 47, dove viene sancito, senza mezzi termini, “il primato dell’utilità sociale” sull’interesse privato.

La Costituzione italiana, unica al mondo, entra nei rapporti di proprietà (che – marxianamente – dei rapporti sociali sono la forma giuridica) ed afferma (articolo 41) che l’iniziativa economica è sì libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Di più: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
In altri termini, la programmazione economica, di cui è titolare la mano pubblica, diventa la bussola che deve, e sottolineo deve, orientare tanto l’attività imprenditoriale pubblica, quanto quella privata.

E cosa succede – o dovrebbe succedere – ove l’interesse privato si muova in contrasto con l’interesse sociale?
La Costituzione è nettissima (articolo 42): “La proprietà privata può essere (…) espropriata” e (articolo 43) trasferita “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

Tutto ciò poiché, ribadisce la Costituzione, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Analoghi limiti e condizioni sociali vengono stabiliti per la proprietà terriera e per lo sfruttamento del suolo (articolo 44).

Torniamo ora ad un tema fondamentale. Fino agli anni Settanta, non esiste un vero diritto del lavoro. I rapporti di lavoro sono contemplati dal codice civile e dal diritto commerciale, oltre che dai contratti collettivi. Non a caso la compravendita di forza lavoro si realizza, con espressione orribile, nel cosiddetto “mercato del lavoro”.
Insomma, il rapporto di lavoro, nel quale gli esseri umani entrano come tali, veniva trattato come una transazione fra cose, come se il mercato delle braccia fosse assimilabile al … mercato delle patate.
Ebbene, con lo Statuto dei lavoratori, frutto di un’impetuosa stagione di lotte e di conquiste contrattuali dei lavoratori (il contratto dei metalmeccanici del 1969 fu in tal senso una pietra miliare), nasce il diritto del lavoro, il giuslavosismo, che acquista una dimensione autonoma, più coerente con lo spirito della Costituzione.

Il diritto del lavoro proverà a colmare la differenza di rapporti di forza fra datori di lavoro e loro dipendenti (fra capitale e lavoro) affermando, fra le altre cose, un concetto fondamentale: la “non revocabilità”, la “non rinunciabilità” del contratto collettivo, neppure da parte del lavoratore interessato. E ciò per proteggere la parte più debole dalla sua stessa debolezza che potrebbe indurla ad accettare, o meglio, a subire rinunzie gravi.

Ricordo un’iniziativa, che promuovemmo in quegli anni come Camera del lavoro di Brescia, quando chiamammo Giovanni Palombarini, magistrato fra i fondatori di Magistratura democratica, a parlare della genesi dello Statuto dei lavoratori. Egli ci disse come si avesse scarsa consapevolezza di quanto l’irruzione sulla scena politica italiana del movimento operaio e l’approvazione della legge 300/70 abbiano cambiato il modo di leggere la Costituzione da parte di un’intera generazione di magistrati.
La forza del movimento operaio aveva cioè cominciato a disgregare le idee di parte delle classi dominanti e dei suoi intellettuali, fra i quali, appunto, i magistrati.
Nella fabbrica, sino a quegli anni rimasta impermeabile alla Costituzione, zona franca nella quale si affermava l’unilateralità (e il dispotismo) del potere padronale, si apre una breccia che si richiuderà solo molti anni dopo, come esito della sconfitta del movimento e del suo riflusso.

Tornando alla Costituzione ed al suo impianto, va sottolineato come essa, in ogni suo articolo, sia permeata da un fortissimo spirito comunitario, teso a frenare gli “spiriti animali” del capitalismo e a promuovere l’interesse comune, l’interesse sociale, l’uguaglianza reale, sospingendo il lavoratori ad assumere un ruolo sempre più forte nella direzione delle imprese e dello Stato.

Per questo la Costituzione è “fondata sul lavoro”, non per una escogitazione letteraria, per una fumisteria retorica, per una concessione verbale priva di reale sostanza.

Essa è, nello stesso tempo, prescrittiva ed anche un progetto di società fondato sull’espansione progressiva della democrazia.

La domanda che a questo punto si impone è: quanto lontani siamo da quella ispirazione, da quella che – attenzione! – malgrado attentati e manomissioni rimane la legge fondamentale dello Stato italiano alla quale dev’essere (dovrebbe essere!) subordinata tutta la legislazione ordinaria e su cui la Corte costituzionale ha il compito di sorvegliare?

La risposta è lapidaria: siamo lontani anni luce da quell’impianto e dai rapporti di forza sociali e politici che ne consentirono la nascita. Ciò che spiega lo sforzo continuo del potere costituito per mutarne la lettera, mentre già si è lavorato alacremente, e con successo, per rovesciarne la sostanza.

Basta leggere l’articolato della Costituzione, a partire dai principi fondamentali, per rendersi conto di quanto grave sia lo smottamento subito dalla Carta.

Facciamolo questo esercizio, per capire quale metamorfosi stia subendo la costituzione materiale che regge la vita comunitaria.

A partire proprio da quell’articolo 1) che tanto fece dibattere l’assemblea costituente, nel 1947.

Se lì fosse scritto non ciò che è scritto, ma che “L’Italia è una repubblica autoritaria fondata sul capitale e sulla finanza” diremmo un’esagerazione?

E cosa ne è dei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” che la Repubblica riconosce e garantisce nel suo articolo 2)?

Quanto al povero articolo 3), la prescrizione solenne dell’impegno a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla reale affermazione dei fondamentali diritti di cittadinanza (lavoro, salute, istruzione, ecc.) è stata soppiantata dall’altrettanto solenne disimpegno dello Stato, per cui al primo posto oggi troviamo il vincolo al pareggio di bilancio che rovescia l’ordine delle priorità, ponendo al primo posto l’equilibrio contabile dei conti dello Stato e subordinando a questo traguardo tutto il resto.

Il diritto al lavoro, a cui l’articolo 4 dedica una specifica previsione, prevedendo che la Repubblica promuova le condizioni che rendano effettivo questo diritto, è stato totalmente rimosso. Lo documenta la storia del nostro Paese quando milioni di persone furono costrette all’emigrazione o quando, come nel tempo presente, un giovane su due è senza lavoro. E ciò malgrado il lavoro non sia considerato dalla Carta soltanto lo strumento grazie al quale procurarsi il proprio sostentamento, bensì un elemento costitutivo della personalità umana, un’attività che concorre al “progresso materiale o spirituale della società”.

L’articolo 10 afferma che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Ma ancora oggi l’assenza di una legge strutturata, i numerosissimi dinieghi, le disfunzioni interne alla Commissione, non fanno altro che incrementare il numero di “clandestini” alla mercé del mercato del lavoro nero (sino alla riduzione in schiavitù) e alla perdita di qualsiasi diritto del quale, pensiamo, debba essere portatore ogni essere umano.

L’articolo 11 mette al bando la guerra, ripudiandola “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Il tradimento di questo solenne giuramento èdi un’evidenza solare. L’Italia è direttamente coinvolta e partecipe di conflitti portati in casa altrui, dalla ex-Jugoslavia, alle guerre del Golfo, dall’Afghanistan, alla Libia. Le spese per le missioni ipocritamente rinominate “di pace” sono sempre più consistenti, come pure le risorse appannaggio dei più sofisticati sistemi d’arma.

L’articolo 13, che apre la sezione della Carta dedicata ai Diritti civili recita: “La libertà personale è inviolabile . Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione, né qualsiasi altra forma di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei solo modi e casi previsti dalla legge (…). E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (…).
E ancora, l’articolo 27, che afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ebbene, noi tutti sappiamo, all’opposto, a quale mostruosa condizione è sottoposta la popolazione carceraria, quali violenze essa quotidianamente subisce, circostanza tragicamente documentata dal numero di suicidi che annualmente si verificano nel nostro Paese.

La natura, le modalità di selezione delle forze dell’ordine in Italia spiegano del resto molto bene i fenomeni di coinvolgimento, di depistaggio, di deviazione di consistenti apparati dello Stato, sempre chiamati in causa nelle vicende più torbide dello stragismo e del golpismo che hanno insanguinato il nostro Paese nel tentativo di sovvertirne l’ordinamento democratico.
Le vergognose giornate di Genova 2001, durante lo svolgimento del G8, la sospensione della democrazia costituzionale, la mattanza della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto sono ben più gravi di un singolo episodio, per quanto aberrante, poiché indicano la presenza di un grumo marcio che risale nella catena di comando sino ai livelli più alti delle forze di polizia e alla protezione che il potere politico ha sempre garantito ad esse. Non è certo un caso che solo oggi – sotto la sferza della sanzione di condanna europea – l’Italia provi a darsi una legge che sanzioni il reato di tortura sino ad ora assente nel nostro ordinamento.

L’articolo 33 si incarica di rendere certo il diritto all’istruzione e afferma il primato indiscutibile della scuola pubblica, dettando “le norme generali sull’istruzione ed istituendo scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Il secondo comma prevede poi che enti e privati abbiano il diritto “di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma “senza oneri per lo Stato”.
Peccato che mentre si lesinano alla scuola pubblica e all’università risorse essenziali per il loro funzionamento, siano sempre più consistenti i fondi pubblici regalati alla scuola privata, soprattutto confessionale. Sicché l’affermazione perentoriamente contenuta nell’articolo 34 (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”) suona come una beffarda irrisione per milioni di ragazzi ancora oggi costretti ad un abbandono precoce degli studi.

L’articolo 36, con cui si apre il titolo III, sancisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Pochi precetti costituzionali, come quello appena citato, sono stati così clamorosamente negati nei rapporti reali. Il salario di chi lavora oggi non basta a riprodurre neppure le più modeste condizioni di riproduzione dell’esistenza. Quasi 9 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà, mentre si allarga sempre più la zona grigia, di coloro che rischiano da un momento all’altro di cadere nell’indigenza. Il lavoro è stato ridotto ad una merce che i rapporti di forza sociali costringono a vendere a prezzo politico. L’esercito di coloro che svolgono prestazioni di lavoro precarie interessa ormai due generazioni di lavoratori, mentre l’indebolimento del sistema di protezione sociale rende drammatico e senza via d’uscita lo stato di disoccupazione che coinvolge strati consistenti di popolazione anziana.

Neppure l’articolo 37, che garantisce “a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione” conosce una reale applicazione. Tutte le statistiche a disposizione provano che a parità di lavoro le donne percepiscono retribuzioni mediamente inferiori a quelle degli uomini.

Quanto al “cuore” del titolo III, quello che afferma il primato dell’interesse sociale su quello privato e che giunge sino a prevedere l’esproprio ove queste condizioni non si verifichino, la norma è stata letteralmente rovesciata nel suo contrario sicché oggi potremmo rileggere così il fondamentale articolo 41: “L’iniziativa economica privata è totalmente libera e incondizionata. L’utilità sociale può essere perseguita a condizione che non contrasti con la remunerazione del capitale e con gli interessi degli investitori privati”. Con buona pace per la libertà, per la sicurezza e per la dignità umana.

La Carta fissa poi un punto decisivo del “patto sociale” che dovrebbe rappresentare il presupposto della coesione sociale: l’articolo 53 afferma in fatti che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Ora, è noto che l’aliquota più alta è crollata – non certo a causa di calamità atmosferiche – da oltre il 70 per cento degli anni Settanta all’attuale 46 per cento e che le dimensioni di un’evasione fiscale alla quale non si è mai voluto opporre un serio ostacolo veleggia nelle stime più prudenziali della Corte dei conti attorno ai 130 miliardi annui.
Mentre si vaneggia sul peso “esorbitante della spesa pubblica” (in realtà inferiore alle tasse incamerate dallo Stato al netto degli interessi sul debito) e si taglia selvaggiamente il welfare, si consente il protrarsi di un furto ai danni della collettività da parte di quanti non lavorano a reddito fisso e si sono avvalsi sino ad oggi di una sequenza vergognosa di condoni, scudi fiscali, salvataggi, garantiti da un sistema che lungi dal combattere questi comportamenti lesivi dell’interesse pubblico li ha incoraggiati e cronicizzati.

Si potrebbe ancora proseguire, ma noi ci fermiamo qui.

Vale solo la pena di sottolineare come quello scritto nella Costituzione fosse il progetto di società nato dalla Resistenza. Ciò che se ne è fatto è sotto gli occhi di tutti. Questo spiega più di ogni altra cosa la ragione per cui della Resistenza e della guerra di Liberazione o non si parla o se ne parla per vilipenderla e per contraffarne il significato più profondo.

Che poi esista un nesso – e quanto stretto! – fra l’inapplicazione della Carta e lo stato della nostra democrazia è cosa altrettanto evidente.

Come è noto, la più importante banca d’affari del mondo, il cui fatturato supera il volume del pil di interi stati e di qualche continente, la J.P.Morgan, scriveva un paio d’anni or sono in un documento di 14 pagine, che il problema che va risolto in radice è proprio quello delle costituzioni antifasciste nate nell’Europa mediterranea dopo la sconfitta dei fascismi, dell’ideologia socialisteggiante che le pervade e del sovraccarico di democrazia che ostacola il libero sviluppo del mercato.

Ecco dunque venire in chiaro il tema, squisitamente politico, che è di fronte a noi: il grande capitale, nell’epoca della globalizzazione e della sua superfetazione finanziaria, per venire a capo delle contraddizioni generate dal proprio modello di accumulazione ha bisogno di drenare e concentrare nelle proprie mani (le mani di un pugno di “proprietari universali”) l’intera ricchezza prodotta dal lavoro sociale e di sequestrare tutto ciò che la natura offre come bene comune. Per farlo occorre liberarsi di ogni ubbìa democratica e tornare alle forme più autoritarie, reazionarie e oligarchiche di governo del sistema.

Ecco perché la battaglia per la difesa e, soprattutto, per l’attuazione della Costituzione rappresenta un compito di primaria importanza che riguarda la gran parte del popolo italiano.
La stessa battaglia contro l’oligarchia liberista che governa l’Europa con il bastone della sua pseudo-scienza monetarista, passa attraverso la riaffermazione della nostra Costituzione che di quell’impianto è l’opposto diametrale.

La stessa Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) impegnata quest’anno nella celebrazione del 70° anniversario della vittoriosa guerra di Liberazione, è bene sia in campo non solo per difendere in astratto la memoria dell’atto fondativo della Repubblica; non solo per esigere (ma questo non avviene ormai da tempo) l’applicazione della “XII Disposizione transitoria e finale” della Carta che proibisce “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; ma resti in campo per animare, con tutta la determinazione necessaria la lotta per la realizzazione del progetto di società, di rapporti sociali, di sviluppo della democrazia, di realizzazione dell’ideale di una società di liberi ed eguali che sono il vero, prezioso lascito della rivoluzione democratica e antifascista.

 

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