L’occupazione delle fabbriche (agosto-settembre 1920)

  • Posted on: 2 June 2020
  • By: Anonimo (non verificato)

di Dino Greco –
Le agitazioni sociali nelle campagne e nelle città che si erano impetuosamente sviluppate lungo tutto il 1919 continuarono con intensità ed ampiezza non minori nel 1920. E continuò lo sviluppo delle organizzazioni sindacali.
La CGdl Raggiunse i 2.150.000 iscritti. La Cisl arrivò a 1.180.000 iscritti. Complessivamente, tenuto conto dell’Usi, dell’Uil e dei sindacati autonomi il numero dei lavoratori organizzati superò nel ’20 i tre milioni e mezzo.
Lo scontro di classe più importante della prima fase dell’anno avvenne nel settore metalmeccanico nei mesi di marzo e aprile a Torino, ed ebbe come oggetto principale la nuova istituzione operaia dei consigli di fabbrica.
Il primo consiglio sorse nell’agosto del ’19, quando in una fabbrica torinese, la Fiat-Centro, la commissione interna in carica si dimise e gli operai decisero di eleggere al suo posto un commissario per ognuno dei 42 reparti della fabbrica. L’insieme dei commissari formava il consiglio di fabbrica.
Il movimento dei consigli era ispirato e sostenuto dal gruppo che si riuniva intorno alla rivista L’Ordine nuovo, di Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca, di cui Gramsci era ormai il teorico più coerente e dinfluente.
Secondo gli ordinovisti, proprio i consigli di fabbrica, come già i soviet in Russia, dovevano diventare i principali strumenti di lotta del proletariato per la conquista del potere, dapprima nelle fabbriche, gangli vitali dell’organizzazione produttiva borghese; poi con l’alleanza dei contadini, nel paese intero.
Essi dovevano pertanto divenire le prime cellule dell’organizzazione del nuovo stato proletario.
I consigli di fabbrica e la teorizzazione che ne fecero gli ordinovisti suscitarono subito l’ostilità dei dirigenti riformisti della CGdl, della Fiom e delle principali federazioni di categoria, non solo perché questi dirigenti diffidavano di un movimento in espansione guidato da un gruppo comunista e appoggiato da elementi anarchici, ma soprattutto perché temevano che i consigli, eletti a suffragio universale da una base composta anche dai non iscritti al sindacato finissero per esautorare prima o poi il sindacato.
Anche i dirigenti massimalisti del partito socialista negavano che i consigli di fabbrica potessero avere una funzione analoga a quella che avevano avuto i soviet in Russia.
Infine, anche Bordiga, da una sponda opposta, criticava gli ordinovisti perché non si ponevano il problema della lotta diretta contro lo Stato borghese e temeva che i consigli potessero essere assorbiti dall’ordinamento esistente.
Egli bollò la linea ordinovista come venata di “anarco-sindacalismo”.
La linea indicata dall’Ordine nuovo poteva svilupparsi in senso rivoluzionario soltanto se i consigli fossero riusciti a contrapporre il loro potere a quello delle imprese all’interno di tutta l’organizzazione industriale del paese e se fossero riusciti a collegare il loro movimento a quelli allora in atto delle masse contadine, cosa che, come vedremo, non avvenne.
I padroni, Agnelli in testa, colsero immediatamente la pericolosità della rivoluzione consiliare e si convinsero della necessità di opporsi energicamente ai consigli di fabbrica. Il 20 marzo una delegazione di industriali, di cui faceva parte lo stesso Agnelli, si recò dal prefetto di Torino, al quale comunicò la decisione di dichiarare la serrata per rispondere alla pressione degli operai, giudicata insostenibile.
Proprio in quei giorni entrava in vigore il decreto governativo che ristabiliva l’ora legale, provocando da parte degli operai la richiesta – non accolta dalla direzione della Fiat – di ritardare di un’ora l’inizio dell’orario lavorativo. Il 22 marzo la commissione interna della sezione Industrie metallurgiche della Fiat sposta di un’ora le lancette dell’orologio di controllo. La direzione reagisce licenziando i membri della commissione e gli operai rispondono con lo sciopero, che passerà alla storia come lo “sciopero delle lancette”.
Il movimento dello sciopero dilagò e fra il 29 marzo e il 23 aprile coinvolse dapprima 50.000 operai metalmeccanici e poi, con la dichiarazione dello sciopero generale, 120.000 lavoratori della città e della provincia. Lo scontro era diventato tutto politico e aveva per posta la vera questione di fondo e cioè l’esistenza stessa dei consigli di fabbrica che gli industriali volevano liquidare. La resistenza degli industriali fu durissima e fu resa insormontabile da varie circostanze.
Innanzitutto l’appoggio del governo Nitti che in quei giorni concentrò a Torino circa 50.000 uomini fra guardie regie, carabinieri e soldati, oltre al sostegno di tutte le forze conservatrici e anti-socialiste della città. Poi gli industriali, che in questo caso non badarono a spese, poterono arruolare un gran numero di crumiri ed assicurare il funzionamento dei servizi pubblici nei giorni dello sciopero generale. Anche il Fascio di Torino, che peraltro contava soltanto un centinaio di iscritti, sostenne l’azione degli industriali, la cui vittoria fu salutata con entusiasmo da Mussolini sul Popolo d’Italia del 23 aprile.
La vittoria degli industriali fu favorita anche dall’atteggiamento della CGdl e del Psi, ostili a questo sciopero che aveva per protagonista un movimento che usciva dal quadro tradizionale delle lotte sindacali e che tendeva a modificare profondamente la struttura stessa e le finalità del movimento operaio. Il partito socialista in un convegno nazionale tenuto a Milano nei giorni 20 e 21 aprile, deliberò di respingere la richiesta degli ordinovisti di proclamare lo sciopero generale nazionale.
Il segretario della CGdl, D’Aragona, si assunse quindi il compito di “seppellire il morticino”, cioè di liquidare lo sciopero torinese, accettando la soluzione degli industriali che esautorava i consigli di fabbrica e restringeva i compiti e le prerogative delle stesse commissioni interne.
Gramsci commentava così la vicenda: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione; o una tremenda reazione della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia e di incorporare gli organismi di resistenza operaia (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello stato borghese”.
Dopo questo passo profetico la relazione proseguiva con una critica implacabile dell’attività del partito socialista e proponeva:
“il Partito deve acquisire una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito coeso, omogeneo, con una propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile”.
E ancora: “I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra”.
L’importanza di questa relazione sta anche nel fatto che, conosciuta da Lenin, verrà presentata dai Bolscevichi, al II congresso dell’Internazionale, come l’unica posizione accettabile per quanto riguarda il Psi. Si arrivò in questa situazione di divisione dentro le file socialiste e dentro la stessa sinistra all’agosto del ’20. Già nel maggio l’VIII congresso della Fiom, con Bruno Bozzi, aveva approvato una piattaforma rivendicativa che chiedeva agli industriali aumenti salariali del 40% in media, aumenti delle retribuzioni per le straordinarie, per l’indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. Tutto ciò in un quadro economico che aveva registrato l’aumento del costo della vita del 60% rispetto al ’19.
Le trattative ristagnano per tutto il mese di luglio. L’indisponibiltà degli industriali è totale. La lotta assume forme ostruzionistiche. La situazione precipita alla fine di agosto, quando l’Alfa Romeo proclama la serrata, seguita a ruota dalla Federazione nazionale dell’industria meccanica e metallurgica. Gli operai non escono dalle fabbriche e le occupano in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in tutte le regioni dove esistono stabilimenti metalmeccanici: circa 500.000 lavoratori si asserragliano nelle fabbriche e sotto la guida dei consigli di fabbrica e dei commissari di reparto, continuano nei limiti del possibile la produzione e apprestano la difesa delle fabbriche stesse pur con un armamento scarso e improvvisato. Squadre di guardie rosse sorvegliano giorno e notte gli stabilimenti.
Giolitti si rende subito conto del fatto che la vastità del movimento rende pericolosissima e per di più aleatoria un’azione di forza chiesta con grande insistenza da Agnelli. Spiegherà Giolitti che fare sgomberare le fabbriche “avrebbe significato scatenare la guerra civile”, a maggior ragione dopo che la CGdL “aveva solennemente dichiarato che essa escludeva qualunque carattere politico del movimento che si sarebbe mantenuto nei limiti di una vertenza economica”.
Giolitti e i dirigenti riformisti della CGdL furono dunque sostanzialmente d’accordo nell’impedire che il movimento assumesse un carattere propriamente politico e si aprisse uno scontro fra le forze dello Stato e quelle della classe operaia.
Ma in realtà proprio questo fu il tema che l’azione degli operai, per la sua vastità, per la sua spontaneità, mise al centro della lotta nelle prime settimane di settembre.
Si susseguono febbrilmente, nei primi giorni di settembre, una serie di riunioni degli “Stati generali operai”, con rappresentanti delle Camere del lavoro impegnate nella lotta. Alla richiesta proveniente da varie realtà di estendere l’occupazione a tutte le fabbriche Buozzi risponde che bisogna mantenere lo scontro sul piano sindacale, mentre l’estensione dell’occupazione avrebbe cambiato obiettivi e prospettiva. E a una domanda di Terracini che chiede a D’Aragona cosa pensasse “sulla possibile rivoluzione in Italia e sul suo avvenire”, il capo della CGdl risponde che non se la sentiva di assumere delle responsabilità “che si risolverebbero nel massacro del popolo”. Gli Ordinovisti di Torino avvertono tutta la tensione e la contrarietà della dirigenza riformista della CGdL e chiariscono subito che o la lotta sarà generale o non si potrà pensare che accada come in aprile, quando nella lotta Torino fu lasciata sola.
Il Psi, a questo punto, rinuncia ad avocare a sé la direzione delle lotte, si scrolla dal groppone ogni responsabilità e rimanda la decisione finale al consiglio nazionale della CGdL, ben conoscendo umori e propensioni del suo gruppo dirigente riformista. La drammatica notte dell’11 settembre andò in scena in Italia, né più né meno, il voto sulla rivoluzione. Si confrontarono due mozioni: quella favorevole all’estensione del movimento e all’avocazione della direzione delle lotte al Psi e quella di Ludovico D’Aragona. Prevalse quest’ultimo con 591.245 voti contro 409.569. Gli astenuti (Buozzi e i rappresentanti della Fiom) furono 93.623. E’ bene ricordare che alle riunioni del 10 e 11 settembre non parteciparono i rappresentanti dell’Usi e del sindacato ferrovieri.
Il 22 settembre un congresso straordinario della Fiom approva l’accordo.
Nell’ultima settimana di settembre le fabbriche vengono sgombrate. Così terminò quel movimento di massa che per estensione e per la radicalità degli obiettivi perseguiti fu certamente il più grande tra quanti ve ne furono in Italia durante il “biennio rosso” e, a ben vedere, nell’intera storia del movimento operaio. Un movimento che suscitò la “grande paura” di vasti settori della borghesia. Dal punto di vista strettamente sindacale esso si concluse con un successo dei lavoratori, che pare particolarmente notevole se si tiene conto dell’intransigente ostilità con cui gli industriali avevano accolto le rivendicazioni della Fiom ed avevano tanto a lungo resistito ad esse (aumenti del 10-12% per le categorie meglio pagate e del 20% per i lavoratori non qualificati, miglioramenti economici relativi alle ferie, all’indennità di licenziamento, alle tariffe di cottimo e per le ore straordinarie).
Rimase lettera morta la questione del controllo operaio delle aziende: nei mesi successivi, mentre si scatenava la reazione fascista, tanto la CGdL quanto il Psi non ebbero la forza e neppure la determinazione necessarie per continuare su quella strada. Del resto, il tema del controllo operaio era stato il surrogato con cui socialisti e riformisti del sindacato cercavano di contenere la vera richiesta che era quella dell’autogestione operaia della produzione.
Bordiga era per parte sua convinto che fosse necessario prima creare un partito rivoluzionario, quale il Psi non era e poi fare la rivoluzione. E in effetti, il risultato dell’occupazione delle fabbriche accelerò il processo che doveva portare, quattro mesi dopo, alla scissione di Livorno e alla nascita del partito comunista. Convinti che la situazione fosse matura per la rivoluzione e che l’occupazione delle fabbriche dovesse essere allargata e sboccare nell’insurrezione rimasero gli anarco-sindacalisti i quali però rimasero isolati e fallirono nel tentativo di prolungare l’agitazione in contrasto con l’accordo raggiunto con la mediazione di Giolitti. In un certo senso, l’esito dell’occupazione delle fabbriche è proprio la dimostrazione del fatto che il movimento operaio italiano non aveva una sua strategia rivoluzionaria, che non vi era nessun rapporto reale tra una progettazione come quella dei Soviet e quanto si faceva nella pratica.
I consigli di fabbrica sorgono in molte città, ma non è loro indicato alcun obiettivo concreto di lotta. Ma c’era anche tutto quel fondo localistico, quello squilibrio corporativo che Gramsci rilevava dopo lo sciopero di aprile che riguardava non solo le dirigenze ma le stesse masse, tra le quali l’occupazione è stata vissuta in modo molto diseguale.
Una rivoluzionaria sensibile come Klara Zetkin lo noterà senza mezzi termini:
“Io vedo altro ancora, compagni, cioè che le masse che allora si erano sollevate in Italia non avevano fatto maggiori progressi dei loro capi, altrimenti, se le masse fossero state davvero animate da volontà rivoluzionaria, se fossero state coscienti, esse avrebbero quel giorno fischiata la decisione dei loro capi-partito e sindacali esitanti e si sarebbero impegnate nella lotta politica”.
Non c’è dubbio che una certa faciloneria massimalistica, una certa “psicologia parassitaria”, oltre alla stanchezza di due anni di “ginnastica rivoluzionaria” si siano impadronite anche di gruppi operai e sulla loro remissività giocheranno i capi sindacali riformisti nel ricattare il partito.
Del resto, tale sensazione è anche quella di un uomo come Gramsci che conosce da vicino la psicologia operaia e ne tiene sempre conto.
Scriverà:
“Noi nel 1920 non avremmo tenuto il potere se lo avessimo conquistato, con un partito com’era il socialista, con una classe operaia che in generale vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifici. Avremmo avuto dei tentativi controrivoluzionari che ci avrebbero spazzato via inesorabilmente”.
Si tirano le somme di un’esperienza che il leninismo sottolineava da anni e cioè che la rivoluzione richiede un certo tipo di organizzazione  politica del proletariato, un certo tipo di fedeltà a un centro internazionale, a un certo rigore disciplinare.
Mentre il Psi aveva dimostrato di essere sostanzialmente rinchiuso nei limiti storici della II Internazionale, di non avere accettato se non formalmente i principi della III Internazionale.
Per questo la pur straordinaria rivolta operaia era fatalmente condannata alla sconfitta e veniva esposta alla reazione più violenta delle classi dominanti, spaventate dal rischio corso ed  ormai pronte ad affidare al fascismo la tutela dei propri interessi e le sorti stesse del Paese.
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